Mendicanti nell'essere solidali con gli altri per una cultura della solidarietà al servizio della predicazione.
In un mondo dove non c'è mai stata così tanta ricchezza, dove non c'è mai stato così tanto denaro in circolazione, ma in cui la distanza tra chi è ricco e chi è povero aumenta sempre più, l'Ordine non può rimanere indifferente di fronte a questa realtà, né può lasciare che la "logica del mondo" determini i nostri rapporti.
Per tal motivo, e per fondare la nostra predicazione nella preoccupazione per un mondo più giusto, dobbiamo sviluppare tra di noi una "cultura della solidarietà" autentica e provocatoria. Una tale cultura aiuterà a rinforzare la nostra unità, caratteristica fondamentale del nostro Ordine.
Introduzione: oltre la mendicità una cultura di solidarietà
Mendicità
L'ordine dei Predicatori fu fondato come Ordine mendicante; anche se è chiaro che i tempi sono diversi, è importante essere consapevoli di questo, quando parliamo della nostra
identità domenicana. Sappiamo che Domenico pose un’esigenza assai radicale riguardo alla povertà. Ai suoi tempi volle scegliere uno stato di vita in solidarietà con coloro che
erano impoveriti. Insistette anche su di una regola che non consentiva di avere proprietà personali o in comune. Questo condusse naturalmente all'adozione di uno stato di
mendicità, seguendo così l'esempio di Gesù (cfr. Tommaso d'Aquino, "Summa Theologiae" III 40 3). Oltre ad essere la conseguenza di una scelta di rapporto piuttosto radicale con la
povertà, la mendicità indica anche la scelta di vivere nella dipendenza da coloro ai quali i predicatori sono inviati, rispecchiando la dipendenza di Gesù e dei suoi discepoli,
nel loro andare per città e villaggi annunciando il regno di Dio (Lc 8,1-3). Questa dipendenza manifesta la volontà di vivere il rischio di una certa vulnerabilità materiale, e
sull'esempio di S. Domenico, di abbandonarsi alla divina provvidenza anche come scelta per la predicazione itinerante. In questo modo, parlare di solidarietà nella missione
universale di evangelizzazione, implica la necessità di un sostegno reciproco in tale missione di itineranza evangelica. Per un verso essa qualifica immediatamente la nostra vita
(itineranza a causa del Vangelo) e d’altra parte determina anche le nostre finalità (itineranza per donare il Vangelo).
La scelta di una mendicità così vulnerabile è oggi tutt’altro che evidente per diverse ragioni. Ovviamente dobbiamo adempiere ad un certo numero di obblighi, come la formazione di
fratelli più giovani o assicurare le cure migliori ai fratelli più anziani, stipulare assicurazioni per salute e pensioni di vecchiaia, come pure provvedere ad un ragionevole
mantenimento dei nostri spazi liturgici e di vita quotidiana. In una realtà di vulnerabilità sociale, in cui molte sono le vittime in diversi Paesi, non sarebbe sano o
giusto pretendere di identificarci con tutto ciò. Esistono già sistemi di solidarietà organizzati tra le diverse fasce sociali, e i religiosi non possono situarsi per scelta in
una situazione tale per cui tali sistemi sarebbero obbligati a sostenere le varie necessità, quando essi stessi avrebbero i mezzi per farlo. Ciononostante, la scelta di una
certa ‘frugalità’ e semplicità di vita, deve essere una scelta determinata, per non distanziarci troppo dai più vulnerabili e in modo da non trovarci dipendenti dalla vita
benestante e dal potere, cosa che accade anche se non lo abbiamo scelto. Dobbiamo riconoscere che poco alla volta ci siamo abituati ad un certo tenore di vita che ci obbliga
ad assicurarci risorse necessarie, e non siamo sempre pronti ad abbassare il tenore di vita e le comodità che, in molti Paesi, possiamo vivere. In modo analogo, in alcuni luoghi
ci siamo abituati ad essere proprietari di molti immobili di valore (o anche a cercare di diventarne proprietari), immobili che pensiamo sia difficile vendere, al fine di
assicurarci i bisogni più essenziali, anziché contare sulla generosità di altri per aiutarci a far fronte a tali bisogni.
Perciò non dobbiamo essere poco seri e una riflessione sulla mendicità deve essere per noi una chiamata per valutare, oggettivamente e con umiltà, a che cosa tale scelta ci
impegna e quali sono gli effettivi bisogni per i quali riteniamo legittimo chiedere aiuto ai benefattori. Una questione in particolare ci deve riguardare: in quale misura il
nostro stato di mendicità ci rende dipendenti dagli altri per sostenere le necessità della nostra vita quotidiana e fino a che punto consideriamo la mendicità come il modo attuale
per chiedere agli altri di sostenere i bisogni che abbiamo determinato? Oppure d’altra parte - più esattamente - a partire dalle relazioni di vita che abbiamo con loro (LCO,
99 II) vogliamo imparare a contare sugli altri per determinare la qualità della vita più appropriata per la nostra missione di predicatori?
Solidarietà e beni comuni
Gli ultimi due Capitoli Generali (ACG Roma 2010 §§57, 72-23; ACG Trogir 2013 §§48, 57, 111, 209) ci hanno invitato a porci tali domande riguardo al nostro modo di vivere la
povertà e la mendicità in rapporto al più ampio tema di una autentica cultura della solidarietà. Questa prospettiva può aiutarci ad evitare il rischio (spesso menzionato
durante le mie visite alla Province) di fare scelte apostoliche, seguendo criteri più rilevanti per il miglioramento della sicurezza economica, piuttosto che per la missione, cosa
di cui molti frati si rammaricano.
Visitando le Province, sono venuto a conoscenza del fatto che molti frati lamentano la necessità di tenersi una posizione piuttosto redditizia che tuttavia impedisce di rispondere
ad un bisogno più urgente. Oppure che la scelta di rimanere in una tale posizione non è tanto in rapporto ad un bisogno reale, quanto piuttosto alla redditività di quel posto.
Senza dubbio le questioni economiche devono essere prese in considerazione nell'organizzazione della nostra vita apostolica, ma come dobbiamo fare per assicurarci che non
diventino un criterio vincolante che diviene ostacolo alla nostra risposta nei confronti dei bisogni dell'evangelizzazione o alla nostra creatività?
Sin dalla fondazione dell'Ordine, sono esistite molte forme di solidarietà tra le diverse entità. Hanno permesso lo sviluppo della nostra missione e rinforzato i legami fraterni
di solidarietà lungo i secoli. Una cultura condivisa rinforzata dalla solidarietà ci consegna, tra altre esigenze, di ascoltare la chiamata a non essere centrati su noi stessi ma
ad "espropriare noi stessi" - per usare la bella espressione usata dal Card. Ratzinger nel 2000 per descrivere la condizione spirituale per la nuova evangelizzazione. Tale
espropriazione di noi stessi nel rendersi conto dei bisogni degli altri, è un mezzo da cui emerge la consapevolezza della comune responsabilità apostolica. Lì essa si radica, e in
vista di questo possiamo strutturare la nostra concreta vita materiale. In tal modo, la solidarietà non significa solo una riserva di risorse grazie alla quale ognuno può
realizzare i suoi progetti con l'aiuto economico degli altri. Diviene piuttosto un modo di vita condiviso basato sulla preoccupazione comune per la predicazione che ci rende più
capaci di adeguare la nostra vita concreta ai reali bisogni apostolici che ci siamo assunti in uno spirito di solidarietà nei confronti di tutti.
Prendiamo come esempio la formazione iniziale dei frati, che è una delle priorità di questa responsabilità comune, perché la preparazione dei frati predicatori di domani deve
essere responsabilità di ognuno. In questo ambito troviamo una reale disparità tra i frati dell'Ordine , sia che si abbia a che fare con le risorse per il mantenimento della vita
quotidiana delle case di formazione, per lo studio (spese per i libri, attrezzatura, registrazione all'università), sia per offrire possibilità di sperimentare
l'universalità dell'Ordine. Ora, ogni frate in formazione farà la professione per l'Ordine; dobbiamo scoprire come poter riconoscere meglio tale realtà da un punto di vista
economico, così che ciascuno possa beneficiare delle necessarie risorse per la sua formazione e i suoi studi iniziali. Posso sottolineare il medesimo bisogno di solidarietà, in
relazione agli studi complementari e accademici specializzati per cui le Province hanno l'obbligo di preparare i frati ad assumere questo impegno per la missione dell'Ordine. In
alcune Province, la realizzazione della solidarietà in questa area di formazione, esiste già e la generosità di alcune entità è encomiabile. Senza dubbio, possiamo migliorare
ulteriormente l'efficienza di questo sostegno, strutturando meglio la solidarietà a livello dell'intero Ordine. Per esempio con l'adattamento e la collaborazione tra diverse
strutture di formazione della Provincia - già esistenti - che sono in grado di provvedere alle risorse; sostegno per le case di formazione ancora fragili; borse di studio;
collaborazione strutturata per l'insegnamento; disponibilità nel rinforzare le comunità di formazione, ecc. ecc.
Quando parliamo di solidarietà, il riferimento alla Scrittura che viene subito in mente, è la prima comunità descritta negli Atti degli Apostoli, dove "tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno" (Atti 2,44-45). La sfida, lo sappiamo bene, non è solo nel condividere con altri, e ancor meno nel condividere, al di là della nostra generosa ‘buona volontà’, ciò che abbiamo scartato. La sfida è soprattutto l'avere "a priori" una preoccupazione per i bisogni degli altri e considerare in qualche modo questi bisogni come nostri. A volte siamo tentati di considerare le cose che possediamo in comune, solamente secondo il punto di vista economico. Dobbiamo però assumere una prospettiva più ampia che promuova anche una solidarietà, che ci aiuti a rispondere con quanto è richiesto per gli incarichi apostolici o per il rafforzamento delle comunità per la nostra comune responsabilità apostolica. Il peccato di trattenere i beni, raccontato negli Atti, non è primariamente una bugia, piuttosto sta nell'abbandonare la cura per l' unità di tutto ciò che richiede fiducia incondizionata e mutuo rispetto. La mendicità è come una scuola che ci insegna come assumere la condizione di essere un mendicante che si basa sulla cura degli altri ai nostri bisogni. Avere tutto in comune è d’altronde anche pedagogia per la difesa del bene comune, ed è il frutto della cura per i bisogni degli altri.
Rinnovamento nell'Ordine
La chiamata allo sviluppo di una cultura di solidarietà è stata lanciata dagli ultimi Capitoli Generali nel momento in cui si è iniziato a parlare di una ristrutturazione dell'Ordine. Questa ristrutturazione è radicata in una prospettiva di rinnovamento a cui ci invita la prossima celebrazione del giubileo dell'Ordine. Così, tale ristrutturazione non deve essere definita come una razionalizzazione delle nostre strutture bensì come la determinazione ad orientare meglio la nostra organizzazione in vista della missione della predicazione. La sfida è quella della promozione e del sostegno alla predicazione dell'Ordine per la chiesa, in posti nuovi o in luoghi particolarmente difficili. In questo ambito non è solo essenziale considerare le situazioni forti, organizzate, ben stabilite. Il rischio delle nostre nuove strutture in un mondo globalizzato è di preferire il più forte invitando il debole ad unirsi al forte o mettendo il debole sotto la protezione del forte, mettendolo alla mercé del buon volere del più forte. Nel nostro sforzo di ristrutturazione, dobbiamo, al contrario, considerare la complementarità tra tutte le forme di presenza della predicazione dell'Ordine, forti o deboli che siano. Gli inizi di una nuova missione, per esempio, possono essere fragili e vulnerabili, e possono richiedere un sostegno prolungato e costante anche se, a volte, noi siamo tentati di prendere delle decisioni effettive molto velocemente. Sappiamo pure che alcuni luoghi di predicazione, particolarmente importanti, sono e rimangono i più vulnerabili, raramente capaci di sostenere i predicatori, e richiedono l’attuazione di una solidarietà di più lunga durata. L'unico possibile punto di vista, ancora una volta, è quello della comune responsabilità della predicazione, che ci permette, tutti insieme, di darci l'opportunità di portare la Parola nei posti più difficili dove fragilità e vulnerabilità saranno proprio la condizione di una testimonianza evangelica.
Ovviamente tale cultura di solidarietà deve essere posta nel contesto globale nel mondo. Una delle caratteristiche del "mondo globale" è il divario tra i ricchi e i poveri. In un certo senso, questo divario cresce anche tra noi, tra le Province, e a volte anche nel cuore di una Provincia, tra le sue comunità. Tale divario cresce anche tra noi e i settori più vulnerabili delle persone a cui siamo stati inviati (in termini di viaggi e comunicazione, accesso alle cure mediche, istruzione ...). Pensare ad una cultura di solidarietà, ci obbliga a chiarire cosa significa essere inviati a vivere come fratelli nel mondo. Perché, attraverso questa fraternità, noi diamo testimonianza alla Parola annunciata a tutti, per portarci all'amicizia con Dio. In questo senso la solidarietà ci insegna a far nascere la fraternità, sia al cuore delle nostre comunità, sia nelle relazioni a cui siamo stati inviati.
La solidarietà e i voti
La solidarietà non è uno dei tre classici voti della vita religiosa, ma in questa prospettiva di mendicità, possiamo capire come una cultura di solidarietà, così come è stata descritta, di fatto riguarda i tre classici voti della vita consacrata. Quando nell'Ordine pronunciamo il voto di obbedienza, domandiamo la grazia per consacrare le nostre vite alla Parola nell'itineranza di un predicatore. In un certo senso, noi prendiamo i voti per essere mendicanti, in quanto siamo predicatori.
Domenico chiese ai primi frati di promettergli l'obbedienza per la vita comune. Penso che in tal modo volesse insistere sul legame tra la predicazione e il lavoro di fraternità, affermando in modo implicito che il servizio della predicazione è intimamente legato al mistero della Grazia con cui Cristo ha stabilito la sua chiesa come fraternità donata al mondo, segno della speranza di salvezza. L'impegno nella vita comune non è in primo luogo un’osservanza morale, è piuttosto una proclamazione di speranza in questo lavoro misterioso di dare vita alla fraternità. I primi compagni di predicazione di Gesù videro come egli era capace di solidarietà con l'umanità, una solidarietà con coloro non avevano posto in una società stabilita dagli esseri umani - come il lebbroso, l’uomo nato cieco, il paralitico, il pubblicano e i peccatori con cui egli condivise un posto a tavola. E’ solidarietà con tutti per la salvezza di tutti. In questo modo i discepoli impararono a vivere essi stessi questa solidarietà (cfr. Lc 8-10; Matteo 10) come la via migliore per la predicazione. Le lettere apostoliche di Paolo mostrano quanto difficile potesse essere per i nuovi credenti stabilire un’autentica solidarietà tra loro stessi. Le lettere insistono sul carattere essenziale di tale aspetto economico nella vita dei discepoli di Cristo. La testimonianza della vita fraterna non è testimonianza di un ideale morale che è già pienamente realizzato. E' piuttosto quella di una speranza che l'essere umano sia capace di essere convertito alla fraternità, nel divenire sempre più dipendente dai fratelli e dalle sorelle che gli sono stati donati, ispirato dall’esempio stesso di Cristo (cfr. 2 Cor 8-9, dove Paolo propone un paradigma per una riflessione teologica sulla solidarietà tra le comunità cristiane). In tal senso, la fraternità in cui si dipende è una via preferenziale per "annunciare il Regno". La promessa di obbedire, di ascoltare la Parola, di lasciarci guidare ad essere posti al suo servizio per il bene di tutti, suggella il nostro ingresso nella solidarietà.
Ogni conversione è, in radice, un lavoro di grazia, ma è data a coloro che vogliono acquisire i mezzi e le condizioni pratiche per essere usati da questa grazia. Da questo punto di vista, possiamo dire che vivere il voto di povertà è un mezzo per tale preparazione. Non possiamo negare un paradosso reale nelle nostre vite religiose: poveri o mendicanti all'inizio, come è stato facile, e come è stato rapido, muoversi in una vita piuttosto "borghese" e individualistica! Questo è vero da un punto di vista collettivo e capiamo bene perché Domenico volesse guardarsi dall'istinto della proprietà, il cui rischio per noi è quello di attaccarci più ai beni che renderci disponibili alla mobilità per predicare. Ma questo è vero anche da un punto di vista personale. E' vero per molti tra noi che, dopo essere entrati nell'Ordine veramente con poche cose, ad ogni nuova assegnazione devono organizzare un trasloco di cose ogni volta più consistente, poiché accumuliamo libri e beni di ogni genere, e questo senza menzionare le posizioni sociali o accademiche a cui arriviamo. Il voto di povertà ci deve invitare, quotidianamente, ad essere sradicati da questa tendenza ad "assicurare" la vita per noi stessi, invece di permettere quelle "relazioni viventi" con la gente (e con i frati della nostra comunità o Provincia) che devono essere, alla fine, la nostra vera sicurezza. Da questo ad ognuno di noi sarà dato un "centuplo".
Non dobbiamo essere attaccati a quei posti specifici che ci renderebbero indifferenti agli altri, piuttosto dobbiamo accettare di vivere in solidarietà con gli altri nei Paesi in cui siamo inviati. E' necessario lavorare insieme per ottenere sempre più semplicità e frugalità di vita, non per un piacere malato di divenire un "eroe" della povertà che ci conduca ad essere importanti per noi stessi, ma per guadagnare una libertà interiore. Per guadagnare anche una fiducia reciproca che ci permette di credere che Egli veramente darà a ciascuno secondo le sue necessità. Spesso viene accentuato il legame essenziale tra il voto di povertà e la determinazione a tenere i nostri beni in comune. Bisogna riconoscere che l'avere in comune tutti i beni è una delle più grandi difficoltà incontrate dalle comunità e anche tra le comunità nelle Province. Ognuno conosce le diverse strategie che adottiamo per dirottare tale impegno e sappiamo che questo è uno degli aspetti più difficili della vita in comune. Sperimentare questa difficoltà significa assaporare, nella propria esperienza di vita, la sfida che ogni chiamata alla solidarietà con gli altri rappresenta; la vita comune, nel suo quotidiano condividere la vita fraterna, nell'organizzazione capitolare della comunità, e nella effettiva gestione dei beni comuni è un tipo di "pedagogia" per la solidarietà. Da questo punto di vista, portare alla comunità una preoccupazione per una solidarietà vera e forte tra di noi (tra le comunità e/o le Province), ma anche costruire una solidarietà reale con i poveri del nostro mondo, è una chiamata a prendere sul serio l'impegno di scegliere di organizzare le nostre vite personali e comuni sotto il segno della vulnerabilità piuttosto che sotto quello della sicurezza assoluta. Ad ogni momento obbliga alla scelta di essere sradicati e di "espropriarsi".
Il voto religioso di castità appartiene a questo stesso progetto, e chiama ad una sorta di sradicamento affettivo. Dopo aver vissuto molti mesi in una comunità in un posto molto vulnerabile, nella prossimità a molte vittime della povertà, un frate che vive tale apostolato potrebbe dire che il voto più pertinente per il religioso non è tanto la povertà, quanto la castità. Certo, essere soggetti alla povertà è poco invidiabile e non dovrebbe essere considerato un "valore" in se stesso. Ma l'impegno alla solidarietà con il povero ci chiama ad approfondire e coltivare il nostro impegno di castità, che è una giusta distanza che veramente apre uno spazio per la libertà di tutti. La vulnerabilità nel celibato continente, a cui conduce il voto di castità, è la vulnerabilità di un tipo di insicurezza nella solitudine. E’ opportunità perché questa mancanza farà nascere una prontezza più acuta per vedere la nostra capacità di solidarietà come Cristo nella sua umanità ha vissuto. Così la castità ci conduce ad un certo modo di essere e anche ad imparare una certa qualità di relazioni con coloro che si trovano nel bisogno, scoprendo che la questione non è incontrare i bisogni, ma unire i destini in una relazione di solidarietà che libera ognuno.
Solidarietà nella missione e testimonianza per il mondo
Durante le mie visite, è stato sempre molto importante richiamare all'unità organica del nostro Ordine. L'Ordine non è una somma di entità di per sé autonome, sotto contratto come una "federazione", come neppure una Provincia è una sovrapposizione di comunità, né una comunità è una giustapposizione di individui. Questa immagine di una realtà organica (in qualche modo integrata: cfr. LCO 1, VII) è, in se stessa, un modo di annunciare il regno. Se aspiriamo ad un mondo in cui il Dio dell'alleanza accetti di essere re, un mondo in cui l'essere umano non cerca più altri "re" creati a sua immagine, è necessario - entro le nostre capacità e i nostri limiti umani - cercare di creare un mondo abitabile per tutti. Tale mondo non può essere ridotto ad una organizzazione contrattuale tra entità o individui autonomi. Deve essere un mondo dove i destini di tutti siano condivisi nella stessa esistenza perché condividano la stessa speranza in Dio che è la fonte e la comunione tra gli esseri umani, e chiama alla loro attiva partecipazione. Questa è la predicazione della fraternità a cui contribuisce in modo specifico l'impegno alla solidarietà.
Da questa prospettiva - la questione nelle nostre comunità della relazione ai beni materiali e in particolare al denaro - sorge non solo l'idea della ‘socialità’ che intendiamo promuovere, ma anche una reale speranza nel potere trasformante del "lavoro di comunione fraterna" (cfr. E. Lévinas, "Socialité et argent", in C. Chalier e M. Abensour, Cahier de l'Herne. Emmanuel Lévinas, Editions de l' Herne, Parigi, 1991, 134-138 - un testo in cui la socialità significa la dinamica delle relazioni sociali che organizzano e determinano una società e una cultura). Le regole che ci guidano in tale ambito non sono là per "moralizzare" la vita religiosa, piuttosto per fissarci in un orizzonte teologico e per dare alle nostre pratiche concrete una prospettiva escatologica. In questa ottica (e con la forza della speranza che ci dà) possiamo osare di confrontare i fallimenti che viviamo per correggerli (economie parallele, resistenza al tenere le cose in comune, consumismo, salvaguardia della propria vita personale, priorità data ai legami familiari o ai mezzi privati invece che alla solidarietà comune, alleanze stabilite sulla base di dipendenze affettive ...). Tali correzioni non dovranno in primo luogo richiedere giudizi morali degli individui, piuttosto dovranno richiedere creatività nella solidarietà di una vita fraterna. Da questo punto di vista teologico possiamo anche osare di definire priorità in favore dei più poveri all'interno di una comunità, dei meno fortunati, dei meno produttivi. Questo punto di vista ci aiuterà a capire come possiamo stabilire l'interdipendenza della solidarietà al cuore della nostra comunità (gestione comune, dare a ciascuno secondo i suoi bisogni).
Questa prospettiva sarà anche quella che dirige le relazioni di solidarietà al cuore della Provincia. In una Provincia, sorgono spesso alcune questioni; ad esempio, la distinzione tra le comunità ricche e le povere (a volte, le più ricche aiutano le più povere, ma in alcuni casi in base a criteri decisi dai più ricchi); o una diseguaglianza tra le comunità che conducono le loro attività nella più completa trasparenza e altre che praticano una certa segretezza. In molti luoghi sono state create istituzioni apostoliche che promuovono la predicazione, ma che possono essere anche tentate, gradualmente, di diventare autonome in rapporto alla Provincia e un frate incaricato, si fa virtualmente proprietario del progetto. In modo più generale, molte Province sono state condotte a riflettere sui legami che si sono formati gradualmente tra le scelte apostoliche e la preoccupazione per una redditività economica. Se questo aspetto non può essere certamente ignorato, dobbiamo evitare attività di predicazione che dirigano la nostra solidarietà verso ciò che ci garantisce una personale sicurezza per indefinite ragioni economiche. Così, è necessario ricordare il rapporto che può essere costruito nel cuore della Provincia con le comunità, le istituzioni, o anche con i Vicariati, giudicati incapaci di partecipare. In vista di ciò, troppo spesso la realtà economica diventa il primo, a volte l'unico modo di cercare di costruire relazioni con gli altri.
Come appare l'Ordine al mondo attraverso tutte queste cose? E' importante essere consapevoli di ciò, così saremo in grado di riconoscere la richiesta radicale di lavorare per una comunione fraterna nel mondo. Il problema dell'opzione per i poveri è centrale perché è un criterio per l'analisi, per l'autenticità, per il decentramento (a chi ci avviciniamo?). Come possono essere unite le nostre comunità per mezzo della solidarietà e come possono estendere questa solidarietà alla Provincia intera o anche all'Ordine?
Nell'Ordine sono sorte domande riguardo alla salute ed alla formazione iniziale, due aree in cui c'è la più grande diseguaglianza tra noi. Ma possiamo anche additare stretti legami con particolari situazioni che sembrano inopportune nella prospettiva generale dell’Ordine. In modo analogo possiamo indicare una grande disuguaglianza tra la provvisione di mezzi per la vita apostolica o per l'impegno apostolico - che a volte significa libertà apostolica. Per esempio, per quanto riguarda le parrocchie, possiamo accettare (o anche richiedere) la responsabilità di vivere per la promozione dei poveri o delle donne, o per la protezione dei bambini, invece di dare la priorità all'istruzione.
Per far sì che la solidarietà operi tra noi è indispensabile che chiediamo chiarezza, trasparenza e responsabilità per obiettivi specifici. Nel medesimo tempo, è importante che noi non chiediamo ai più deboli, coloro che hanno i bisogni più essenziali, la stessa responsabilità, che chiediamo ai più forti. In tal modo funziona il mondo, certamente, ma è importante per noi che predichiamo in Vangelo con la parole e l’esempio, resistere a questa tentazione.
Costruire una cultura della solidarietà
Rispondendo alla richiesta del Capitolo Generale di Roma (in cui il MO ha stabilito un "Ufficio per il supporto delle missioni" (ACG Roma 2010, 231)) è stato creato per tre anni un ufficio della solidarietà, il cui nome ora è Spem Miram Internationalis. Il suo principale obiettivo è incoraggiare lo sviluppo della cultura della solidarietà di cui ho parlato e di gestire fondi di solidarietà in tale prospettiva. Tale gestione sarà portata avanti in linea con questa cultura della solidarietà, nella promozione della solidarietà così da trovare la propria funzione nella promozione della solidarietà in modo tale che tutto possa sostenere una "comune cultura della solidarietà".
Possiamo identificare alcuni pre-requisiti per questa cultura. Deve essere radicata in una consapevolezza apostolica comune e le sue priorità devono essere concordate insieme. Per esempio, non sarà possibile sviluppare solidarietà nell'area della formazione iniziale se non siamo tutti convinti che sia più importante promuovere la formazione di ogni frate che limitare noi stessi a preoccuparci solamente dell’entità a cui apparteniamo. Lasciatemi ancora una volta porre l’accento sul fatto che l'Ordine non è una ‘federazione’ di Province, anche se è molto importante che le entità abbiano autentiche radici locali sia da un punto di vista culturale che ecclesiale. Questo radicamento nel ‘particolare’ è essenziale per ogni entità per contribuire alla promozione della missione dell'Ordine al servizio della chiesa universale. Si può costruire una solidarietà tra noi se sviluppiamo una reale consapevolezza e una mutua stima per i progetti intrapresi. Alla fine, se vogliamo fare progressi nella solidarietà, ciò presume che ognuno di noi, ogni entità, siamo animati da una vera determinazione a tenere ciò che è "veramente necessario", mettendo ogni cosa al servizio degli altri.
In tale prospettiva, chiedo alle diverse entità comunità e province, di riflettere sul modo migliore di vivere la solidarietà che è al cuore dell’Ordine. E’ possibile identificare molti modi di contribuire a tale progetto di solidarietà: contributi regolari di comunità e province ai fondi di solidarietà dell’Ordine che sostengono progetti apostolici e la formazione delle entità più fragili; collaborazione per la formazione di giovani frati; collaborazioni tematiche (ad esempio nel campo dell’educazione o della protezione dei bambini); condivisione di ‘risorse umane’ (professori, pastori, esperti); risposte parziali a chiamate; condivisione di ‘risorse di relazione’ (spesso siamo ‘gelosi’ dei nostri benefattori!). Comunità e province possono, ognuna al proprio livello, decidere di sostenere i loro progetti di solidarietà per l’Ordine. Spem miram internationalis segue progetti da indicare al Maestro dell’Ordine e vede che il denaro è utilizzato in modo saggio in modo tale che le comunità donatrici e le province sono rassicurate della finalizzazione delle loro generose contribuzioni (cfr. il sito web di Spem miram internationalis,www.spemmiram.org, che presenta i suoi obiettivi, il procedimento e la presentazione dei progetti).
Ovviamente una buona dinamica di solidarietà richiede un certo numero di condizioni. C’è naturalmente l’esigenza di chiarezza nei conti, un resoconto di quanto è stato compiuto, l’espressione di gratitudine; ma c’è anche l’esigenza di non rimanere bloccati in atteggiamenti di vittimismo e di dipendenza infantile. Un frate, e gli altri erano d’accordo, mi ha fatto sapere che la nostra dinamica di solidarietà probabilmente sarebbe accresciuta se scoprissimo insieme come attuare un progetto di solidarietà con qualcuno diverso da noi stessi. Ciò esprime il sogno che questo sia una nostra via per celebrare il giubileo dell’Ordine: dare al mondo ciò che abbiamo ricevuto!
Questo mi sembra un buon punto con cui concludere questa lettera sulla cultura della solidarietà. Naturalmente abbiamo bisogno di sviluppare maggiormente una solidarietà tra di noi, e questo costituirà un elemento essenziale per consolidare l’unità dell’Ordine. Ma, come ho sottolineato all’inizio di questa lettera, tale cultura deve continuamente riferirsi al fatto che Domenico ha dato a noi un Ordine che sceglie di essere predicatori nell’essere mendicanti, imitando Colui la cui venuta desideriamo annunciare al mondo. Il Verbo della vita si è presentato come un mendicante, dipendendo dall’ospitalità dell’umanità, per dimostrare che Dio, nel suo Figlio, vuole essere in solidarietà con il mondo.
Vostro fratello,
fr. Bruno Cadorè, O.P.
Maestro dell’Ordine dei Predicatori