Come si demoliscono uno Stato e la sua Nazione? Si isola il suo Capo, lo si spoglia dei simboli della sovranità. Si recidono le radici e si svuota il tronco, anno dopo anno svigorito, rinsecchito. E’ quanto avvenne ai danni dell’Italia e dei suoi cittadini dal 1943: con l’assalto, parte frontale, parte subdolo alla sua Istituzione portante: la monarchia di Savoia, protagonista e garante dell’unità nazionale. L’Europa oggi in affanno è il risultato della Guerra dei Trent’anni del secolo scorso (1914-1945), che si sostanziò nel crollo di quattro Imperi e nella lotta sanguinosa tra gli Stati inventati con le catastrofiche paci del 1919-1920. Lo zar di Russia fece la fine peggiore: assassinato con tutta la famiglia a Ekaterinburg per ordine di Lenin, che ne fece colare il sangue tra la Santa Russia e la Rivoluzione. Mentre l’ultimo Sultano dell’impero turco-ottomano vagava sulla Costa Azzurra, in cambio del dominio su Costantinopoli Ataturk abbozzò uno Stato moderno, oggi rimpianto. Carlo VI d’Asburgo tentò invano di risollevare le insegne della sua dinastia. Gli Stati Uniti volevano la testa di Guglielmo II Hohenzollern prima di concedere alla Germania l’armistizio. Il Kaiser riparò in Olanda, paese neutrale sotto tutela indiretta della Gran Bretagna, mentre era in corso la “repubblicanizzazione d’Europa”, brodo di coltura di nazionalismi e di totalitarismi come ha scritto François Fejto.
Il Regno d’Italia fu l’unica monarchia continentale di peso uscita dalla Grande Guerra non solo indenne ma con ingrandimento territoriale significativo: il crinale alpino dal Brennero a Monte Nevoso, lembi italofoni della Dalmazia, le colonie prebelliche, a cominciare da Libia, Rodi e il Dodecanneso: era l’Idea di Roma, anche senza impero d’Etiopia e corona di Albania. Quel Regno non ebbe né alleati sinceri né alcuna potenza amica. L’immensa documentazione (solo in parte agevolmente disponibile: rimangono inediti i verbali del Consiglio dei Ministri dal 1921 al 1943) prova che nel 1943-1946 l’obiettivo dei vincitori fu la demolizione della monarchia per cancellare definitivamente l’Italia dal novero delle aspiranti Grandi Potenze.
Con la “resa senza condizioni” dell’8-29 settembre 1943 Vittorio Emanuele III salvò lo Stato. Ma ai vincitori non bastava. Volevano un’Italia più debole e rinunciataria. Non solo militarmente sconfitta, ma umiliata e demoralizzata. V’era un solo modo sicuro per arrivarvi: eliminare la monarchia. Contrariamente a quanto balbettano manuali e “media”, in Italia la monarchia fondeva insieme Casa Savoia, repubblicani realistici (Francesco Crispi) e garibaldini. Era la sintesi di memorie letterarie, civiche, monumenti, frutto di tre generazioni che per l’Italia si erano sacrificate. Era depositaria di simboli e di riti. Il Pantheon, eretto a mausoleo della Dinastia e l’Altare della Patria, il Vittoriano, sede del Museo del Risorgimento e dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano presieduto da Romano Ugolini, ne sono la sublimazione: il collegamento tra quella dei Consoli e dei Cesari, dei Comuni e delle Signorie e la Terza Italia, che non è un’invenzione del “fascismo” ma idea portante dell’età liberale e riformatrice, vittoriano-giolittiana.
Per abbattere quell’Italia bisognava svuotarla dall’interno. L’offensiva iniziò con l’assalto al Senato del Regno, inviso a estremisti e a clericali perché era il principale bastione non solo della monarchia ma della società nazionale. Stolidamente Pietro Badoglio, militare di mai provato pregio e politicamente inetto, il 2 agosto 1943 abolì la Camera dei fasci e delle corporazioni. Così annichilì il Parlamento che era (e deve rimanere) bicamerale, come quello britannico. A quel punto, dopo lunghe traversie, scattò la fase successiva. Il Commissariato per l’Epurazione, guidato da Carlo Sforza, Collare della Santissima Annunziata e senatore mai dimissionario anche se residente all’estero (non “in esilio” come poi per adulazione si disse e si scrisse), e dal tardo giacobino Mario Berlinguer, dichiarò decaduti dalla carica tutti i “patres” tranne 22. Senatori erano ambasciatori, ministri, generali, ammiragli, politici di alto merito, magistrati, scienziati, “illustrazioni della patria” e imprenditori di tutti i settori: la crema della Nazione. Essi vennero privati dei diritti civili (e quindi estromessi dalla guida delle imprese che avevano creato) e politici: ghettizzati e impossibilitati a usare risorse e influenze a sostegno dell’Italia che avevano forgiato. Furono declassati a cittadini di serie B. Dovettero ripiegarsi su sé stessi e le loro famiglie. Tra i senatori dichiarati decaduti da Sforza, l’ammiraglio Inigo Campioni era stato processato dalla Repubblica sociale per alto tradimento e fucilato, come l’ammiraglio Mascherpa, massone. Un altro, Elia Morpurgo, ebreo, era morto mentre veniva deportato dai nazisti. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma Sforza – vuoi per vanesio protagonismo, vuoi perché strumento altrui (“Vi mando il vecchio scemo” scrisse di lui Churchill quando lo seppe in rotta per l’Italia) – mirava alla liquidazione di Vittorio Emanuele III.
Privo della legione sacra dei senatori, da Luogotenente e re per poche settimane, Umberto II fece il possibile per rialzare le sorti del Paese, diviso in due e preda di opposti corvi. In un’intervista a un giornalista straniero disse quel che tutti pensavano: nessuno si era opposto all’ingresso in guerra il 10 giugno 1940. L’avesse mai detto. Anche chi, come Benedetto Croce, non s’era pubblicamente opposto all’intervento, si scagliò contro di lui: salvo essere a sua volta sprezzantemente liquidato come connivente del passato remoto dal comunista Palmiro Togliatti, reduce in Italia dal paradiso di Stalin e della Terza Internazionale.
Costretti all’esilio o al silenzio, molti patres tacquero e non interposero alcun ricorso. Fu il caso di Luigi Federzoni, presidente del Senato dal 1929 al 1939, braccato. Aldo G.Ricci ne pubblica il Diario inedito, denso di rivelazioni. I procedimenti penali a carico di altri si chiusero con “non luogo a procedere” per sopravvenuto decesso. Diciannove ottennero la revoca ordinaria della decadenza: Luigi Burgo. Giacomo de Martino, Pietro Gazzera, già ministro della Guerra… Ben 182 ottennero l’annullamento della decadenza da parte della Cassazione: ma solo dopo il referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946. Con sentenza dell’8 luglio 1948, depositata il 26 ottobre dello stesso anno, essi ridivennero senatori di pieno diritto quando ormai non erano più in grado di nuocere. L’Italia si trovò così in una condizione paradossale. Umberto II il 13 giugno era partito per l’estero. Il 19 giugno la Gazzetta Ufficiale annunciò la nascita della Repubblica, ma i senatori del regno erano reintegrati nel nome e nelle prerogative. Con la legge costituzionale n. 3 del funereo 3 novembre 1947 la Costituente approvò la “soppressione del Senato (del regno)”.
Nel frattempo la stessa Assemblea decretò l’esilio per il re e i suoi discendenti maschi (così implicitamente rese omaggio alla legge salica e alle norme immutabili della Real Casa) e varò norme a carico di “chiunque svolga attività fascista o attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico”: reclusione da tre a dodici anni di carcere. Non solo: si stabilì che “chiunque con i mezzi indicati nel precedente articolo fa propaganda per la restaurazione della dinastia sabauda è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”. Contro la verità della storia, costituenti e legislatori repubblicani fecero tutt’uno di monarchia e fascismo. Dal tricolore venne tolto lo scudo di Savoia. Lo Stato ebbe un emblema farraginoso. E l’Italia rimase, com’è, senza inno nazionale. Patriam recuperare divenne l’insegna di movimenti culturali e politici fondati sulla ricerca storica e tesi a restituire all’Italia i simboli della sua storia e le spoglie dei suoi Capi di Stato, come hanno fatto tutti i paesi d’Europa, finalmente liberi da regimi totalitari. L’Italia è ancora lontana dalla meta. Perciò non è vano rievocare fatti e figure del passato, a cominciare dall’ultimo sovrano, Umberto II, che dal padre non ereditò solo la corona ma anche il motto “Italia innanzi tutto”.